di Gaetano Sabetta
Scritto in occasione di un incontro tenuto il 30 ottobre 2022 a Forlì nell’ambito di un convegno organizzato dalla Comunità Missionaria Intergentes dal titolo “Passi di pace verso se stessi, gli altri, il creato e verso Dio“.
1. «Piantare Gesù Cristo nel cuore di ogni uomo, portare la primavera dello Spirito con una Nuova Amicizia e Fratellanza (NAFRA). Questo è l’obiettivo del germoglio» (cf. Isaia 11; 53).
Siamo una comunità che, con spirito missionario – riassunto nella formula: «come il Padre ha mandato me, [a condividere il suo amore] io mando voi» – invita a condividere l’amore di Dio, così come si è manifestato in Gesù Cristo, nella vita di ogni donna e di ogni uomo, fino agli estremi confini della terra (At 1, 8); (leggere EG 1 e 7). Tutto questo viene vissuto nel riconoscimento, nel rispetto e nella conoscenza di come tale amore divino possa trovare modi e forme diverse di manifestazione. Qui può aiutarci questo breve canto di Kabir, il mistico musulmano, tessitore di tende a Benares e maestro di libertà:
Oh Servo, dove mi cerchi?
Guarda! Io sono accanto a te.
Non sono né nel tempio, né nella moschea.
Non sono né nella Kaaba né sul [monte] Kailash.
Né sono nei riti e nelle cerimonie,
né nello Yoga e nella rinuncia.
Se tu mi cerchi sinceramente,
mi vedrai subito.
Mi incontrerai tutto a un tratto.
Kabie dice: «Oh Sadhu!
Dio è il respiro di ogni respiro»
È strano come questi versi poetici richiamino direttamente gli «adoratori in spirito e verità» che Gesù chiede alla Samaritana di cercare… perchè è giunta l’ora, il momento propizio, il kairos. Magari, anche per noi, è giunto il momento di metterci alla ricerca di questi adoratori…, di fare del tempio del Signore una «casa di preghiera per tutti i popoli» (Isaia 57, 7); (cf. Mc 11, 17); non solamente un luogo dove poter adorare nostro Padre, ma il Padre nostro, il Padre di tutti, poiché tutti siamo fratelli e sorelle.
2. Seme-Albero: Spiritualità CMI. Simbolo della nostra comunità è il granello di senape che, diventato un piccolo albero rigoglioso, offre ristoro agli esseri viventi e alla natura tutta. «Il Regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami» (Mt 13,31-32). In questo ciclo continuo seme-albero si concretizza insieme la spiritualità del seme che muore per dare la vita (Gv 12,24-25; Lc 9,25) e la spiritualità dell’albero che vive in Cristo, singolarmente e comunitariamente, i valori del Regno, instaurando relazioni di prossimità e amicizia con tutti. Questa spiritualità del seme che muore e dell’albero che vive immerso nella realtà io la sintetizzo nell’esperienza dell’Uno, della unità profonda tra Dio, il mondo e l’essere umano. Ciò che si intende appunto per “mistica”. Quando Paolo scrive: «Dio è tutto in tutte le cose» (1Cor 15,28), «opera tutto in tutti» (1Cor 12,6); oppure Giovanni, quando afferma: «Tutto è stato generato (eghèneto) [non creato] per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto» si riferiscono proprio a questa esperienza di profonda unità, di rimozione di ogni alterità (ablatio omnis alteritatis), di consapevolezza che il mondo e l’essere umano, ovvero l’intero essere non è altro e fuori da Dio.
3. Mistica cristiana. Gesù, prima di tutti, Paolo, ma soprattutto Giovanni e Maestro Eckart (Eccardo in italiano), dominicano medievale e uno dei più importanti mistici renano-fiamminghi, sono di ispirazione in questo cammino mistico. «Io e il Padre mio siamo una cosa sola» (Gv 10,30), ovvero io sono Dio. Questa è mistica allo stato puro. Gesù è qualcosa di radicalmente nuovo e inaudito: un uomo che afferma l’identità con Dio. Non è l’unione con l’Uno, come nel pensiero greco, perché nella cultura ebraica Dio è un Dio personale che ha un rapporto caldo, diretto, antropomorfo con l’essere umano; eppure tale affermazione ha risonanze con quella greca e non è distante da quella altrettanto stupefacente delle Upanishad indiane: «Io sono brahman», la mia essenza, il mio sé autentico, il mio atman, realtà divina soggettiva è coincidente con la realtà divina oggettiva, soggetto e oggetto divino sono aduali (advaita). Come qualcuno ha scritto a proposito dell’esperienza mistica: «è il passaggio dall’uno al tre senza transitare per il due», oppure è «cercare l’alba nell’imbrunire», come suggerisce una storiella sufi. Ma ritornando a Gesù, ecco un altro aforisma bruciante: «Io sono la verità» (Gv 14,6). La verità, come nel caso di brahman, diventa soggettiva ed afferma il valore assoluto, divino della persona. In entrambe le affermazioni di Gesù il risultato è lo stesso: un uomo afferma la sua identità con Dio. Se da un lato questo può porre la figura di Gesù in una dimensione unica ed irripetibile, così da avere a disposizione un Salvatore, esito prevalente, perché più facile, più popolare, dall’altro è più nascosto pensare che quello che vale per Gesù possa e debba valere per ogni singolo uomo e ogni donna. Magari proprio in questa seconda direzione andava l’insegnamento del Maestro. Le due strade sono state percorse rispettivamente da Paolo e Giovanni. Esse, sia pure differenti, sono entrambe percorsi mistici. Il cristiano allora, come ebbe a dire un famoso teologo moderno, o sarà mistico o non sarà, riferendosi al terzo millennio. In verità il cristiano nasce mistico perché il cristianesimo è la religione mistica per eccellenza.
Il filosofo tedesco Nietszche nel suo libro l’Anticristo parla poco di Gesù e molto di Paolo come di colui che ha negato la “buona novella” portata dal suo maestro trasformandola in una “cattiva novella”. Essa ruoterebbe intorno al peccato, alla vendetta di Dio, alla necessità dell’espiazione. Questo è il nucleo dell’idea paolina così come esposto nella lettera ai Romani: il peccato di Adamo colpisce tutti gli uomini, che sono massa dannata, nonostante la Legge di Mosè. Anzi proprio quella Legge porta l’uomo a quell’orgoglio, a quella presunzione di giustizia, a quella fiducia nelle proprie autonome forze, che costituisce il peccato più grave. Ma, in tutto ciò Cristo muore per noi, espiando il peccato di Adamo, ricostruendo quel ponte tra Dio e l’uomo che Adamo aveva distrutto, aprendo così la giustificazione all’uomo. Questo racconto ha avuto un grande successo, forse perché spiega la morte di Gesù: egli muore per espiare il peccato di Adamo, cioè di tutta l’umanità.
Ma qual è il prezzo di tutto ciò: 1. Dio è un tiranno che chiede sacrifici; 2. la nascita di una nuova legge, quella dell’appartenenza a Gesù che mostra esclusività, intolleranza e presunzione. Tutto questo stride profondamente con il messaggio della Buona Novella di Gesù, con il Dio che Gesù è venuto a mostrarci. Inoltre, la comunità cristiana che si costituisce manifesta sì un profondo legame, ma genera subito elementi di chiusura e di potere, ed è proprio quel racconto e quella giustificazione della morte che cementano la comunità che volontariamente cresce in contrapposizione agli altri alimentando la sua volontà di autoaffermazione. Tutto questo è un vero e proprio capovolgimento dei valori evangelici.
Ma in Paolo c’è anche un altro discorso, quella che ci interessa di più: l’imitazione di Cristo! La figura di Gesù è modello concreto di trasformazione spirituale. Nell’antropologia paolina tripartita corpo-anima-spirito è fondamentale cogliere la distinzione tra anima (psiche) e spirito (pneuma). Mistica significa innanzitutto la conoscenza di sé, conoscenza del vero fondo dell’anima, che è lo spirito, secondo l’insegnamento dell’Apollo delfico: «conosci te stesso, e conoscerai te stesso e Dio». Questa conoscenza di sé stessi si compie essenzialmente scendendo nel profondo dell’anima, cioè scoprendo la sua radice egoistica e volontaristica. La scoperta della radice egoistica del proprio io è la liberazione da tale egoismo. Quello che Eckhart chiama “morte dell’anima”, ovvero la sua sublimazione nello spirito. «Non sono più io che vive, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), segna in Paolo il passaggio dall’uomo carnale, animale a quello spirituale. Implica la fine dell’uomo vecchio, dell’uomo carnale, esteriore, e l’assunzione delle forme dell’uomo nuovo, spirituale, interiore. Bisogna, dice Paolo, avere gli stessi sentimenti, la stessa mente di Cristo. Qui Cristo non è solo il soggetto divino, ma è molto di più. È l’io spirituale dell’uomo che si affianca a quello psicologico. C’è dunque la possibilità di ripeterne i sentimenti e i pensieri e questo porta alla fine di ogni alienazione religiosa, poiché ciò che divino si trasforma in umano e l’autentico umano, ciò che è autenticamente umano segna l’apoteosi del divino. Particolarmente importante a tale proposito è l’utilizzo del concetto di pneuma in Paolo. Lo spirito è nell’uomo l’elemento divino interiore ed è ciò che rende possibile la koinonia, l’unione e la comunione con Cristo e di conseguenza con gli altri e con la creazione. «Chi si unisce al Signore forma con lui un solo Spirito» (1Cor 6,17) recita la frase paolina più importante per la mistica cristiana. In essa ne sono sintetizzati i punti fondamentali: l’imitazione di Cristo e l’unità spirituale, ovvero intesa soprattutto come amore.
Il Vangelo di Giovanni è costruito sull’opposizione luce-tenebra. L’immagine è neoplatonica, ma in Giovanni la luce è incarnata in Cristo: non è una realtà, ma una persona. E quel che conta di più, viene affermato che ciò che vale per Cristo vale anche per il cristiano. Come Cristo è divino, una cosa sola con il Padre, così il cristiano è unito a Dio. È l’unità con Dio nell’amore-spirito il grande lascito che Giovanni fa alla mistica cristiana. Unità che si concretizza nell’amore del prossimo e della natura poiché al prossimo e alla natura siamo uniti. Il verbo che Giovanni usa per segnare questa unità è generazione. Il Prologo inizia, con un “in principio” che scaccia ogni dualismo biblico. Si è fuori dal tempo e dallo spazio, fuori dal passato e dal futuro in un eterno presente. In principio è il Logos che è Dio e tutto è stato generato per mezzo di Lui. Non vi è una creazione del mondo inteso come altro da Dio, ma un’eterna generazione del cosmo in Dio, attraverso il Logos. Anzi c’è una doppia generazione, quella eterna del cosmo in Dio per mezzo del Logos e quella che avviene nel credente. In quanto è generato da Dio come figlio di Dio, ovvero come un altro Cristo, nel credente si genera infatti il Logos, che dunque è insieme generante e generato.
L’esperienza più profonda del cristianesimo, quella che Panikkar chiama cristiania, viene spesso descritta da Eckhart con la tematica della generazione eterna del Logos nel credente. Bisogna dire che questa generazione avviene nel silenzio, che è la stessa cosa della povertà evangelica, cioè la stessa cosa del distacco, della mancanza di appropriazione. È la condizione dell’uomo che Eckhart chiama “nobile”, che «niente vuole, niente sa, niente ha», che si è svuotato di tutto sé stesso, anche delle sue idee nobili su Dio, perché le idee su Dio non sono la vita in Dio, per far generare il Logos. Dunque bisogna «liberarsi di Dio», scrive Eckhart, per essere Dio nello spirito. Pronunciare la Parola, generare il Verbo significano sii il Verbo, sii la Parola. L’uomo povero, cioè nobile, distaccato, non conosce Dio come altro, ma lo è: questo non significa negazione della trascendenza di Dio, ma esperienza trinitaria dell’Uno, esperienza propria del cristianesimo. Ecco alcune delle sue affermazioni che nel 1323 furono considerate eretiche:
- X – Noi siamo trasformati totalmente in Dio e mutati in lui; come nel sacramento il pane viene mutato nel corpo di Cristo, così sono cambiato in lui, giacché egli mi rende uno col suo essere, non simile; per il Dio vivente è vero che non c’è più alcuna distinzione qui.
- XI – Tutto quello che Dio Padre ha dato al Figlio suo unigenito nella natura umana, lo ha dato anche a me, senza alcuna eccezione, né dell’unione né della santità: lo ha dato tutto a me come a lui.
- XII – Tutto quello che la Sacra Scrittura dice di Cristo, si verifica totalmente anche in ogni uomo buono e divino.
- XIII – Tutto quello che è proprio della natura divina, è proprio anche dell’uomo giusto e divino: perciò quest’uomo opera tutto quello che Dio opera, e ha creato insieme a Dio il cielo e la terra, e genera il Verbo eterno, e Dio non saprebbe cosa fare senza un tale uomo.
- XXII – Il Padre genera me come suo Figlio e come suo stesso Figlio. Tutto quel che Dio opera, è uno; perciò genera me come suo Figlio senza alcuna distinzione.
4. Descrizione. L’esperienza dell’Uno, che costituisce la mistica nella sua essenza, è esperienza dello spirito e dell’unità dello spirito e nello spirito: «chi si unisce al Signore, è con lui un solo spirito» (1Cor 6,17), dichiara Paolo. È l’esperienza dell’unità nello Spirito; l’essere coscienti del Mistero che ci circonda nel cosmo, nel divino e dentro di noi. È l’esperienza originaria dell’essere ‘presi da Dio’ che è al di là delle forme e dei nomi, proprio perché è ogni forma ed ogni nome, che è oltre il tempo e lo spazio, proprio perché «in lui viviamo e ci muoviamo» (Paolo). Si tratta dell’esperienza del tremendum et fascinans che il Mistero della realtà, pervasivo e trascendente allo stesso tempo, manifesta dentro di noi e attorno a noi.
«L’uomo, […] nella sua interiorità trascende l’universo delle cose: in quelle profondità egli torna, quando fa ritorno a sé stesso, là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino». (GS 14).
La spiritualità è l’esperienza dell’Uno (ekam, unum, to hon) che illumina tutti gli uomini; di conseguenza ha una dimensione universale e unitiva: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo’ (Gv.1,9)»; «C’è solo una Realtà/Verità, ma i saggi che la percepiscono ne parlano in maniera diversa» (Rg Veda, 1.164.46).
4a. Per il mistico la dualità è il peccato che sta dietro al peccato, per questo il suo cammino è una progressiva rimozione di ogni alterità, perché è consapevole della più radicale, basilare e determinante unità. Come dichiara Silesio nel suo Il Pellegrino Cherubico: «non ottiene l’uomo perfetta beatitudine se l’unità non ha inghiottito l’alterità». Purtroppo il mistico appare agli occhi del dogmatico un bestemmiatore, perché annulla ogni alterità e mina alla base la trascendenza di Dio, cioè il proprio potere: religioso, politico, psicologico, poiché la dualità è sempre particolare e divisiva…divide et impera.
4b. Conoscenza e amore. L’esperienza dello spirito è sempre una sintesi tra conoscenza e amore. Al momento della riflessione, della consapevolezza, che consente quel distacco che restituisce l’umano all’umano togliendogli ogni pretesa di assoluto, ogni volontà di potenza, ogni pretesa di affermazione dell’io psicologico, (dell’io animale secondo l’espressione di Paolo) corrisponde il momento dell’amore, ovvero dell’uscita da sé, di dedizione e di slancio verso l’altro e verso gli altri. Intelligenza e amore sono, secondo molte tradizioni spirituali, i due occhi dell’anima, che insieme formano la visione e determinano l’azione. Si tratta di essere mistici dagli occhi aperti sul mondo e sugli uomini per capire ciò che accade e agire di conseguenza, per leggere i segni dei tempi.
4c. Qui e ora (il presente). In quanto esperienza di unità, l’esperienza dello spirito è dunque sempre esperienza dell’Assoluto nel presente, qui ed ora. Se invece ci sono rimandi a realtà o beatitudini future, nel tempo e nell’eterno siamo nello psicologico, nell’alienazione e nella superstizione. Ancora Silesio: «Se non avrai prima in te, uomo, il Paradiso, in Paradiso, credimi non giungerai mai. Tu dici che vedrai Dio e la sua luce. Stolto, mai lo vedrai, se non lo vedi già ora». L’essere umano spirituale, del tutto distaccato dalla propria volontà egocentrica, esercitando la carità non prova affatto un senso di mancanza. La sua gioia è nel presente ed ogni fuga dal presente appartiene al regno alienante del sentimento e della superstizione religiosa.
5. In Dio, nella natura (creazione?), negli altri. Questa è la Sintesi della missio-intergentes. Il comune impegno per l’incontro tra le pluralità religiose e culturali, l’attenzione alle povertà e ai bisogni di ciascun uomo e donna e la cura della Terra. Ecco i contorni della missione intergentes, la cui linfa è il movimento d’amore di Dio in Cristo vissuto e testimoniato che ci rende uno con Lui. Vivere in Dio significa essere la Parola di Dio, di quell’unico Dio che va rispettato in tutte le sue forme, perché le forme sono simboli dell’Assoluto che nessuno può dire di conoscere e possedere. Essere nella creazione, significa che noi siamo pianta, fiore, roccia, acqua, polvere che tornerà ad essere polvere, energia che per un tempo si è precipitata ed è diventata materia, ma che rimane energia. Alcuni parlano di Ecosofia, come di saggezza della Terra come soggetto (anima mundi), che in quanto madre sa come prendersi cura dei suoi figli, più che di ecologia, che rimane ancora al livello di logos, di raziocinio e come tale mostra ancora una prospettiva antropocentrica. Diversamente si dovrebbe rovesciare la prospettiva l’ecocentrismo, dove al centro c’è la giusta armonia, come quella di un ecosistema, tra Dio, la Terra e l’uomo.
6. Realtà cosmoteandrica. È richiesta una profonda trasformazione (metamorfosi o più precisamente metanoia). Ciò vale prima di tutto nella nostra “percezione” della materia e del cosmo (in direzione di una nuova saggezza della terra, o ecosofia). Ma è altrettanto urgente nella auto-comprensione di noi stessi e dell’umano in noi esseri umani. E, infine, nella consapevolezza dell’orizzonte del mistero nella realtà, che è appunto il divino. Questa è precisamente la missio-intergentes: essere in Dio, nella creazione, negli altri. Mai come ora è vitale pensare al kairos che stiamo vivendo. Ci troviamo a cavallo tra due paradigmi; siamo in fase di passaggio, di trasformazione dall’essere crisalide al diventare farfalla.
Da una parte, il tramonto del moderno, la cui cifre dell’autonomia e della separazione mostrano chiaramente i segni inquietanti del suo passaggio: frammentazione dell’umano, sofferenza del creato, insignificanza del divino. Dall’altro lato, l’aurora di una nuova consapevolezza segnata da una visione olistica, inter-in-dipendente, a-duale, integrale, eco-sistemica nella quale tutto è collegato al Tutto/tutto, senza che nessuno possa dirsi o considerarsi, sciolto, senza legami, assoluto.
Ogni religione da sola ed insieme alle altre, in un vero e proprio impegno teologico interreligioso, non può più ridursi a mostrare la sola ragionevolezza del legame tra il cielo e la terra. Limitarsi a questo appare ora anacronistico, obsoleto ed insignificante; si tratta, invece, d’intercettare anche e soprattutto i sentieri pubblici della convivenza umana e della solidarietà ecologica, così da mostrare quella “corrispondenza di amorosi sensi” tra le tre dimensioni irriducibili del Reale: il divino, l’umano, il cosmico. Non pare assurdo vedere in questa visione la messa in moto di un processo di salvezza integrale che interessa, intercetta e coinvolge tutti e ciascuno; tale processo nel riassumere ed esaltare i mondi vegetale, animale e divino rende ogni cosa più bella e per ciò stessa più buona e più vera, perché se la verità ultima è l’amore la relazionalità ne è il segno più chiaro e indelebile: «In principio è la relazione» (M. Buber).